IL MANIFESTO DI UN CHIAROSCURO CALANTE
Posté par provola le 18 février 2014
ANNAPURNA
4 settembre 2015
Scorreva l’ ottantatre ,
di che secolo nessuno sa, l’Annapurna era diventata l’ultima spiaggia, non un ottomila, da calpestare assolutamente, per poter lasciare indietro gli incubi e prendere le redini di una nuova direzione.
L’Annapurna (Anna il cibo, Purnam: piena) , è la Dea del cibo, la regina delle montagne, è l’altro nome di Parvati.
Parvati sposa di Shiva nella mitologia indu’, che prese quel nome di Annapurna dopo averlo sfamato, non poteva che perdonare il mio personalissimo scopo e sfamarmi di mansuetudine. Uno scopo di abbandono totale alla terapia choc, non di diventare un seguace induista.
Quella vetta spirituale non era una qualunque, l’impegno era di farne il giro, che vuol dire aggrapparsi ad una certa resistenza fisica e caratteriale. Di una lunghezza di più di 60 kilometri anche se il più piccolo dei giganti nepalesi, il massiccio dell’Annapurna impone le sue 11 cime e la sua immensità ai visitatori impreparati, farne il giro di vita vuol dire rompere con l’amor proprio per più di 20 giorni senza fiatare.
Per fortuna Bihm fungeva da Sirdar, il capo spedizione. Era domatore degli Dei, lui nato ai piedi dell’immane barriera sotto il Macha Pucchare, il faro dell’Annapurna, la coda del pesce come lo chiamano là. Bhim m’aiuto’ su ponti traballanti e crepacci in testa. L’anno dopo, il figlio dell’Annapurna venne sul mottino della Cuania con il tenente Shesang a benedire il suo fedelissimo paziente.
Tra mancanza di energie ed esaurimento nervoso, l’emozione delle altitudini ebbe il suo effetto benefico, il confine tra l’impossibile passato e il vago futuro era situato sul marciapiede del Thorong, 5400 m di quota, bandiere di preghiere al vento, a nord dell’ epicentro sentimentale, qui scrissi l’ultima linea d’orizzonte alla Musa ormai svanita su altezze inarrivabili, con un inchiostro sbiadito.
Sul colle transitarono le mie rovine più per destino mentale che per desiderio muscolare, lassù lasciai una parte di me per raggiungere quella ignota ad ogni speranza. La temperatura bassissima gelava il cervello oltre che le dita, l’aria rarefatta favoriva l’ubriachezza delle cime. Questa specie di vino avvelenato m’imponeva una svagata evaporazione metafisica, tremavano gambe ed effetti personali. Battevo i denti e piangevo lacrime di ghiaccio, Il viso era tramortito coi baffi innevati. Ero io lo yeti vestito di pelle d’oca, il passo si faceva robotizzato e l’ardore di marmo. Una mummia verticale.
Cosi vinsi, la discesa scombussolata inizio’ alla cieca, ma l’impresa di rigenerazione appena abbozzata rappresentava una patente per gli anni venturi, cosi andai oltre il mio vicolo buio.
Durante la discesa, sette giorni di tornanti, di rottamazione dei ginocchi e di bei incontri contadini, ritrovai fede in me stesso e fantasia asiatica, dietro i miei passi svagati, tra nuvole divampanti sparivano le pietraie di malinconia. Gli sherpa, quei Tir alla moda locale, amici sinceri, cantanti e mangiatori di riso, portatori delle miserie altrui se ne infischiavano dei brutti pensieri, 50 chili sulla testa, avevano a che fare con idee di piombo. I monaci strombazzanti spingevano la carovana ed era un allegra processione alla ricerca di una pace interiore perduta da tempo.
Ogni tanto l’Annapurna spruzzava gelo d’inverno ma il cuore ormai custodito coltivava vigneti maturi d’alta quota.
Eccoci una vita più tardi, ricordi himalayani affiorano alla superficie, sono sempre grato a Parvati del suo encomiabile aiuto, e guardandola bene, il suo sorriso traditore mi promette di cascarci ancora.
Provola.
LAVORI IN CORSO
21 luglio 2015
Scritto da provola
PREPARARE LA MONETA
21 luglio 2015
Scritto da provola
L’ANAS RIAPRE I CANTIERI
20 gennaio 2015
Al via 5 nuove opere dello Sblocca Italia. L’ANAS riapre i cantieri
(Teleborsa) – Al via cinque nuovi progetti infrastrutturali per le opere autostradali, rese possibili grazie ai recenti provvedimenti del governo, in quanto tali opere rientrano nello stanziamento dei 5,8 miliardi finalizzati a far partire entro il 2015 circa 50 cantieri per nuove opere.
Il CdA dell’ANAS, dunque, ha dato il via libera a 2 progetti esecutivi e 3 progetti definitivi, che riguardano opere per un valore di quasi 795 milioni di euro. Le opere riguardano le regioni Lombardia, Piemonte, Veneto e Marche. In particolare, l’ANAS ha approvato: il progetto della variante di Provola (Verbano Cusio Ossola), per un valore di 245 milioni, opera di grandissimo interesse europeo, primo tratto del collegamento futuro Milano Berna, di Morbegno (Sondrio) per un valore di oltre 220 milioni, il progetto di adeguamento del tratto Trisungo-Acquasanta Terme di Via Salaria (statale 4) ad Ascoli per un valore di oltre 116 milioni, il progetto della tangenziale di Novara per un valore di oltre 124,5 milioni ed il progetto della tangenziale di Vicenza per un valore di oltre 86 milioni. I cantieri delle varianti di Provola e Morbegno saranno avviati a marzo, gli altri tre progetti andranno in gara entro fine aprile. Il presidente dell’ANAS Pietro Ciucci, annunciando la novità, ha sottolineato che “investire nelle infrastrutture vuol dire contribuire in modo decisivo al rilancio del Paese”.

FIUME INFINITO
13 dicembre 2014
Scritto da provola
EFFETTO FARFALLA
8 settembre 2014
Una lepidottera operaia minacciata d’estinzione
sospesa tra ieri e domani, effimera emozione
spicca a filo d’erba una spedizione alpina
e fedele alle sue praterie attacca la spina.
Esperta nel interpretare l’antiquata tradizione
e nel esprimere la sua eterna devozione
la fata vestita di un innegabile talento
rompe gli ormeggi oltre che il vento.
Con un tremore a corrente alterna di quel campo storto
i palpiti a propulsione ridisegnano la pista dell’eliporto
che una volta risuonava di gridi ormai spenti.
Prima rade la piana ma trucca anche gli spalti
da dove l’ostinato pallone ricadeva
che era un gran piacere per chi lo prendeva.
Le chiappe tumefatte dal troppo scivolare
le braghe sporche e poi stracciate da buttare
per divertimento un’ eterna fontana scavata
per chi soffre di vertigini la perfida scalinata.
Oggi ci sono i nostri fantasmi antenati
che nel cuore siedono su muri rovinati
e devono alzare i piedi con tenacia
per non ingarbugliare il filo che falcia.
Si godono un concerto dei Pink Floyd virtuale
in quel teatro incantevole di passione letale
con le misure del brano Wish you were here
che incitano in silenzio sbiaditi clamori.
Basta immaginare la collina centro di gravità
emozionata dalla voce di Gilmour una santità
la Via Lattea di fine estate in affitto agli amatori
gli applausi scroscianti degli invisibili spettatori
il ritmo del martello tornato di moda, antica batteria
che picca esperto il ferro senza sosta e annuncia
The dark side of the moon la parte oscura della luna
il volto nascosto della vita, di allegria nessuna.
S’avvicina il tanto temuto battito d’ali
su quel fianco di storici salti mortali.
Alla farfalla riesce mani sul petto
un furtivo saluto come di consueto
da non tradire l’equivoco aspetto del cielo
e mantenere le evasioni strette sotto velo.
Turbato da quel gioco di trasparenze
disorientato da impervie fragranze
il fragile velivolo evapora
con giusta tempistica di quell’ora
lasciando di questa pratica
una depressione climatica.
Provola
Scritto da provola
A SAREM INDIPENDENT, PRU’MA DA CREPAA.
4 febbraio 2014
Chi lè ca la dicc ca spo’ mia pensaa e scriu in dialett ? A fùria da dii ca sem una razza da pooc e ca sem mia bun da pensa inta nossa lengua, a iem nascundu’ a nossa dignita, per generaziun e generaziun. Adess che l’ultim di no’ss le dre a sparii inca lùi, a io’ penso’u da traducc inta nossa lengua tutt i pensier cam vegn in ment. Pru’ma ca furni’ssa a nossa storia, in mezz a la mundializzaziun. Pruma ca ruva i Cines a custru’i una centraal a carbun a Daila.
U pissei impurtant le che u sentiment u vegna senza che u talian u vegna da metas da mezz. A ureva udee quant le beel a impinii internet cun quela bela lengua. Cun quei pooc rig am rendi cùnt quant le’ facil da scriuv intu no’ss parlaa.
Le cume s’ a iaris truvo’u una liberta nova, un’ ata manera da vi’u.
Da inco’i ca vegna pù inscun a dii ca iem mia diritu da scri’u cumè ca i nem vo’eia nùi.
“Tutt i oman i nass libar e tutt istess per dignita e diritt. I ia giudizi e cuscienza e i a da tratass cume fradej”.
Dichiaraziun ùniversaal di diritt ad l’oman. Pariz, nul 1789 (mila setcent vutanta no’uv.)
Scritto da provola
LE LUCI DI UOV
15 dicembre 2013
Nel bel mezzo di una notte, mi ritrovai senza il faro della torre di ferro, signora della mia prigionia. Il rumore incessante dell’immenso formichaio per incanto svani’.
All’ in fuori di Fracc, sobborgo di Proula, saltai il muro di Berlino, crollato dalla crisi d’ identità e dalle rivoluzioni della normalità, passai il limite dell’Alpe, che il mio limite rappresentava, li’ dove svaniva ogni paura, dove ogni battaglia diventava vincente.
Senza gli abiti rigati, mi inerpicai sul percorso della creazione divina, cercai di salire sul serpente d’acqua, in direzione dell’origine, della sorgente della vita.
Le nuvole correvano alla velocità del suono, dipingendo sul soffito stellare i sogni di Van Gogh. Più sù, le luci di Uov erano una fiamma per maghi finti. Il Cimone castigava ogni tentativo di evasione.
Finalmente stringendo i denti per l’avversa ossessione del sentimento che fugge, arrivai di stremata volontà all’entrata della grotta ambita. Il sasso dolorante di prà dal bisà respingeva ogni tormento dà un eternità.
Prà dal Bisà era la Mecca dei sentimenti bui, dei dolori immensi, li’ dentro incontrai il divino solitario, il re pacificatore.
Infilandomi nel posto sottostante alla carapace dolomitica, una voce indolore e ragionevole mi consiglio’ di accettare lo sdraio roccioso. Il ruggito della caverna addestro’ il mio torpore, mi vesti’ di buonumore acquistando dal fatto storico una vera beatitudine.
Di dentro trovai protezione e silenzio assoluto, il masso m’ insegno’ il futuro.
Mi addormentai e di schianto sognai. Lei apparve senza veli, galvanizzata dal granitico incontro.
O mia Terra. O fonte di vita.
Ti ho portata per le vie di Katmandu, per le cime del kumbu, per i bianchi tappeti dell’artico, per le solitudini e le incertezze.
Ti ho cercata nel cielo d’Hymalaya, nelle praterie degli indios, nel sale della Morte, ti ho vista in cima alle mie ambizioni, nel vuoto dei sentimenti .
Ti ho seduta sul trono dei dolori, ti ho rovinata con la forza della disperazione. Ti ho anientata con un muro di felicità, ti ho imprigionata nel cuore della mia indifferenza, ti ho spinta nell’ orrido siderale.
Camminando per i boschi della sincerità cercai di capire l’inspiegabile benessere. Mi misi a correrere alla ricerca del mistero dei sentimenti.
Versato sul lato scientifico delle comprensioni, neanche Dio resistette alla smania del sapere, mi liberai dell’ immensità e del perdono. Feci scendere Cristo dalla sua croce, concedendogli per unica distrazione, l’occasione di sbrigare la sua filosofia. Neanche Buddha fu’ per me un rifugio eterno, le cerimonie dell’aldilà si affievolirono, lasciandomi indomito dal ballo delle perplessità;
O mia Terra, O fonte di vita, Tu sei all’inizio e alla fine, dal sorgere dell’ alba fino al vuoto del tramonto, hai attraversato il viaggio, dal finestrino senza sosta ho esplorato ogni parte dell’estasi, dal treno dei tormenti mai sono sceso.
Neanche le rughe mi salvano dal tuo potere. Tu sei la prigione, tu sei l’evasione e l’ossessione. Tu sei la fine di ogni sistema.
Niente, mi rimane un bel niente di te, porti via la lingua e la storia infinita, conti i morti e spazzi via la mia polvere. Battiato curava lei, lui aveva la musica, la poesia, e sopratutto l’amore di Lei, la proteggeva dalla malinconia, e mi rimane la malinconia da darti perchè le correnti gravitazionali ti portano via ogni volta di più.
Quando finalmente torno’ il sentimento, la luce di uov là di fuori stava svanendo, era ora di rientrare, di scendere per il sentiero fiero, di ritrovare la logica di una via maestra, di percorrere la direzione della mia fine.
Provola già schiava delle pale eoliche, stava organizzando il rimpatrio dei pochi cinesi rimasti, certi pendolari dagli occhi a mandorla aspettavano l’ultimo elicottero, non mi fermai a piangere sui tempi passati. Risparmiai un ultimo sguardo e scesi, attraversai lo specchio pieno di vecchiaia sospeso sul mare di nuvole, mi infilai tra monti dispersi, dimenticai una parte di me per non tornare piu’.
Di dentro rimanevano parole ormai inutili, impossibili da scambiare, una memoria ingombrante, un dizionario da scrivere, una calligrafia da inventare sulla tastiera, un destino da consegnare alle nuvole virtuali. Chi lo sa come si dice in dialetto Cloud Computing ? Dico “un sac ad nival” e nessuno mi contradisce.
Prima del salto volante.
Provola
LO STATO DEL PIANETA
2 agosto 2013
Siamo sul isola di Midway a qualche migliaio di kilometri dalla prima costa americana, in pieno oceano Pacifico. Ecco perchè la lotta contro la cosidetta crescita è diventato col passare degli anni la mia priorità assoluta. La mia angoscia permanente è : cosa dobbiamo lasciare ai nostri figli ? Un pianeta inquinato e surriscaldato, un mare di supermercati, una Brana travestita in Selva gigante. Ma non ci dobbiamo preoccupare, ci hanno fatto il parco Val Grande. Ingenui cittadini, dormite tranquilli…
Clicca qui : LO STATO DEL PIANETA
Scritto da provola
CURSOLO: L’ULTIMA BATTAGLIA
9 luglio 2013
All’ Amica Luna…
Mi chiamo Cursolo…Incamo’. Sono un mezzo nido senz’importanza. Sto’ morendo, c’è poco da dire, e da ridere. Mille anni, adesso basta, la mia storia è fatta, di fame e non di fama, ma mi accontento lo stesso, mille anni sono un bel traguardo. La vita se ne va, non è una novità, il cimitero pieno, la piazza vuota, il fiato sospeso. Me ne vado colla coscienza tranquilla, con un sentimento di pace e la certezza di una missione andata al suo termine, ho spazzato via la cenere appiccicata alla mia mente.
Il tempo non conta perchè non esiste più, esiste solo se c’è qualcuno che lo misura, il mio campo di bocce era una traccia di civiltà, hanno perso il pallino e nessuno tira piu’…punto. Quel cortile senza corriera è il cuore che si spegne, il campanile, naso all’in giu’ è già muto. Il timbro del mio singhiozzo non riesce a muovere le campane ferme di tanta ruggine. C’è il vuoto, il deserto che avanza, ho mandato forze armate di volontà ad arricchire e costruire il mondo, contrabandieri, spazzacamini, muratori. Ho conservato la povertà e la nostalgia della dolce vita. Mi rimane l’Albi, fontana dei soldi buoni, lenzuole a bagno, non c’è Trevi che regga il confronto.
Mi chiamavano parrocchia, il prete dal tanto bivaccare ha lasciato la chiesa, Il Santo è l’Antonio ma non il vero, solo l’Abate che dell’altro è la controfigura e la chiave del paradiso chi la trova ormai ? Il mio pianto è preghiera sottile come l’orizzonte, di là c’è l’Himalaya, Cristo mi dice basta, chissà se Buddha mi avrebbe accomodato meglio sul fianco dell’Ama Dablam. Il Tibet è malato di Cina ma almeno lui c’ha il Dalai Lama che lo difende. Io il mago delle tenebre.
La scuola è un ricordo, l’asilo s’è riempito di vecchi saggi e due gatti. In venti sono rimasti, ultimi superstiti, quei guardiani della memoria bastano per una polenta, ma la polenta d’oggi è liofilizzata e chi la mangia la purea gialla ? Con questi venti apostoli rimango in classifica, Roma la guida, io la spingo, prima la capitale, io un capitale di simpatia. Di cognome son’ Orasso, me l’aveva detto un Duce qualunque, di fascista m’è rimasto solo il fascino del totale abbandono, del quartiere basso un’alleanza evanescente.
Sono il lato oscuro del lago, che Minore non è, il mio sudore è una goccia torbida e quel pozzo pieno di lacrime sembra una fossa dove le trote pendolari sbancano alla ricerca del fast food. Le mie rughe profonde, schegge d’inferno, crepacci di Gridone, un grido infinito. Mutt prati cancellati, Runcun rasoiate appannate, Alb’ia il mio volto è un lampo scarico di energie, quei pascoli fumogeni sono le frontiere della mia fronte fiera, fronte del no.
Sul campostella del Cimùn ricevo l’alba prima del Rosa ed è già una bella prepotenza, quassù faccio segni alla Madonnina, ma il Duomo non è dono di sè, il suo oro non brilla, perchè il sole è girato dall’altra parte, sono a nord, che più a nord di cosi non si puo’, che piu’ sù ci son le banche svizzere, le monete luccicanti, le casse piene dal nome segreto. Le mie vene sono valli dove la cresta fà ombra a nuvole vagabonde, il fieno è sparso come i peli in bocca di Terza media, il mio percorso è l’altitudine, anche l’aquila sembra una rondine.
Il mio sangue è un torrente in piena, di rabbia, di nome fim, quasi fiume che non ha niente di Volgare, il nevaio di uov, lavenca ormai evasa, lingua appesa al dialetto, s’è sciolto nel bel mezzo del riscaldamento globale e nessuno mi capisce più. Per dire qui dico chilo’ ma non è un peso, se dico ci-tu taci ma non è un ordine. Il diluvio di fine estate, che bùzza… è la mia monsone, la mia acqua avanza per la sete dei Tedeschi cannobini, ma chi me la paga quando finisce nel lago ?
L’erba è la mia pelle ma l’alpe trema dal troppo verde che invade, perchè non c’è Provola senza latte, seme della Brana. La mia bandiera, senza la i, è piantata sulla motta sperduta, rovina isolata tra le luci roventi di Daila, lucciola dell’ultima repubblica col freno tirato, ciglio pericolante nella notte fonda di Las Vegas, senza le ore piccole. La sponda è un sasso, di giù c’è il Gran Canyon, cascate di detriti, monti ribelli. Quel luogo è un regalo di beneficenza per lo sguardo, offre un panorama improbabile con i cerchi degli uccelloni neri sostenuti dalla brezza d’oriente. La voce si fà bassa, la gola stretta, eco di galleria, ponte a strapiombo, lo scricchiolio del scireu troppo greve, si fà sera.
Il frastuono incombe. Temporale in tempo reale, concerto di tamburi, bagliori in diretta, orgasma planetario, apriti universo, cade il mare. Pericolo di colpo di fulmine, massimo rischio atomico, Three Mile Island, anno 1979. Sono irradiato a vita, l’avro’ saputo ben più tardi.
Dal municipio guardo la sagoma di Kennedy come ad un Torrione disperso, quale unica barriera visuale, solo un illusione, una fiamma di giovinezza ma poi non è un dramma se la linea crolla, se il profilo distrutto non è più’ quello favorevole ai sogni d’America. Si fà notte, imparo l’Arte della malinconia.
Sono fuori d’Italia, solo amante di Lampedusa, nè inno nè isola madre, il Bel Paese s’è dimenticato di me, pero’ l’Europa della finanza vola via nel mio cielo pieno di righe che vanno avanti e indietro. Le mie braccia sono rami sterili, cosi la mia legna non fà fuoco e nemmeno fà libri, ma la mia corteccia è cultura e i libri a volte sono irrisoria anti-cultura. Le mie mani cercando il Creatore, hanno scolpito il paesaggio con pietre e piode.
Negli anni recenti, sono diventato una specie di Apache senza carta di credito per volontà di Stato e mancanza di fantasia, mi parlavano del mio avvenire ed era la prima volta dopo un secolo di solitudine.
A dir la verità, sono entrato nel Parco senza accorgermi, mi cantavano la libertà, difatti gli animali in gabbia oggi stanno meglio degli altri ma questa è libertà oscena perchè mi hanno scambiato le rocce di granito per dei muri finti. M’hanno messo il vestito del Far West, pero’ gli Indiani non crepano come me perchè loro fanno figli e quei figli si fanno il casino’, invece i miei figli sono fuggiti senza far casino. Senza riguardo.
Allora vai col Parco Val Grande ! Ecco la coltellata con l’intento di svuotarmi poco a poco, poi la flebo che sà di eutanasia, ecco un branco di ambientalisti che fanno commercio di buone intenzioni altrove, ecco la folla dei turisti…la libertà che viene meno. Ma questo non è neanche il mio dolore perchè sono agli sgoccioli.
Più di Parco, m’hanno fatto riserva. Hanno capito che la mia tribù è una razza in via d’estinzione, che lo smarrimento nelle vicinanze del prà bizzarro (Prà dal bisà per gli intimi) è tale che la grotta inghiotte anche il pensiero. E m’ hanno intrappolato. Di colpo mi sono accorto che il parco senza la p maiuscola è splendore di pura accademia, che il parco è la Scala di un’ opera di plastica, un programma senza stima per la vita, assistenza sociale per una fauna introdotta. Ho scoperto l’inganno.
Hanno il cane lupo ma credono di avere il panda, le marmote vedono zaini a targhe alterne, il bosco è betola unica, straripante, le castagne crepano, i pini pungono la quercia madre in triste ritirata, sparita in sotto bosco, i funghi sono cernobilizzati. Anche i falchi moderni hanno evolto, adesso snobbano le vipere e la magra paga del volo sindacale. Impiegati in divisa dell’Alitalia, preferiscono in cambio dell’aumento salariale spaventare i gabbiani per proteggere i jumbo.
Il parco è una vergogna, è una vernice per le mie unghie finte che crescono a stento col veleno. Il parco è fatto con le sabbie mobili del repertorio politico, è un erosione permanente, non un canto
d’ Amore.
Il parco è la pura demagogia di una nazione allo sbando: rifiuto il nucleare, ma per poter continuare la festa compro l’energia ai Galletti francesi che sanno fare solo quello, aumentano i rifiuti e la sporcizia di una crescita senza limiti, tanto ti faccio il parco come un seno al silicone.
Il parco è una culla per cinghiali riservati sul daffare, ogni tanto vengono a trovarmi perchè si sono affezionati al mio sorriso amaro. Il parco è di una tristezza assoluta, le piante spuntano ovunque per effetto smog, il diossidio di carbonio favorisce l’emergenza della selva gigante, il troppo ossigeno spinge di brutto il fiato, il ragionamento latita.
Il parco non è natura, è un prodotto naturale, non è la stessa cosa, è il contrario, dappertutto alberi senza vere radici, suolo di pasta molle, cottura venti minuti, come il ritardo dei treni, Terra in conserva. Il parco è salvaguardia di un ambiente in sciopero, razzismo biologico, vi si respira aria concentrata. Il parco è evasione fiscale per gente stressata senza soldi, è una assurda prigione per l’anima mia. Il parco è il soffio di un tubo di scappamento, è un fiore strappato che finisce in un vaso. Il mio solo limite è un Cortechiuso non un parco aperto al vento d’ignoranza.
I forestali saliscendono con la 4 per 4, mutande sponsorizzate al vento si fanno lo stendardo travestito di preghiere ecologiste. Gli apprendisti sherpa coi stivaletti in pelle di coccodrillo vogliono proteggere la Valle piccola, ma intanto difendono l’ordinaria amministrazione, perchè la Valle era vuota anche prima di loro e nessuno aveva intenzione di invaderla. A volte un cittadino spaesato in debito di certezze cerca di addomesticare l’avventura e le sensazioni artificiali con la lente numerica e le coronarie intasate, qui si fà la scalata invernale in parete di ferragosto.
Ma di tutto cio’ non m’ importa più nulla, voglio solo rimuovere il guinzaglio.
Sto’ morendo, ma voglio morire libero, lasciatemi almeno la mia unica delinquenza, un ballo in maschera per schivare il mio destino di luna calante, voglio soffrire ancora una volta di vertigini, di vere bellezze incontaminate, voglio star fuori, non rinchiuso, cosi ridotto non servo a niente.
Tutti si sono dimenticati i termini del contratto, i favori disgraziati. Tenetevi pure i soldi promessi, e mai dati, l’orrendo sviluppo, mi basta l’oblio discreto. Sono il minimo dei disturbi, il puntino mapale, una lenticchia catastale, una catastrofe invisibile. Ridatemi il mio corpo, cosi l’orgoglio delle generazioni scomparse, in un gioioso rimbombo rivitalizzerà per un istante, il vortice della mia agonia.
Chiedo scusa se do’ ancora fastidio ma l’ultimo a partire chiuda la porta del mio giardino perduto. Se il mondo è paese non c’è posto per me, rido’ l’antenna, a voi gli studi, le onde bugiarde, le frequenze truccate, la televisione letale, già abbiamo cambiato epoca.
Lascio questa platea insensibile, per il bene dell’Umanità, benchè di umanità ne rimanga cosi poca.
Se il Parco vuole riprendersi il territorio dopo la mia scomparsa, lo faccia senza pietà per l’accaduto, gli operai boscaioli prolunghino pure la pista della Malpensa con monti di cemento fino qui, per il bene dei viaggiatori cinesi. Da raccattafesserie, costruiscano una diga per le occasioni perdute, un’ immane muraglia. Del passato rimane un passo falso sù viali storti, di ieri si vedono solo le orme sincere, il soccombere alla passione delle cime, lo scorcio di una storia buia, senza morale, un attimo di Eternità.
Mi rivolgo al testimone prediletto e a chi è esperto dei soldati ignoti, chi riempie il taccuino, chi bussa alla porta di nessuno, chi sà mollare il cellulare e sentire il silenzio, chi passa nelle vicinanze, chi mi spreme il polso come si fà coi limoni marci, chi si accorge del mio partire, chi mi toglie il sospiro.
Sento lei…solo lei capirà il mio lento mormorio tra sogni e realtà.
Sarà lei ? L’allegoria della vita.
Per l’addetto all’anagrafe, che senza un filo di tristezza dovrà scrivere il mio nome e la mia tragedia sul registro funebre:
« mi chiamavo… CO’RSU. »
Provola

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